Di Mariella De Francesco
Ebbene sì, è decisamente il caso di citare un melenso film americano zeppo di stereotipi (quello però era ambientato in Toscana): perché, nonostante questo 2024 verrà ricordato dai viticoltori franciacortini come un’annata di piogge record, durante il nostro breve soggiorno il sole non ha mai smesso di splendere, per nostra fortuna e per il sollievo, mi auguro non temporaneo, dei viticoltori suddetti.
Quindi niente signore californiane alla ricerca del casale perfetto, con italico e fascinoso vicino di casa incluso nel rogito: qui si tratta di un piccolo estratto dal diario di viaggio di due amiche sommelier a zonzo per vigne e borghi, castelli e monasteri, a degustar variegate espressioni delle più celebri bollicine italiane e alla scoperta della gastronomia locale.
Si racconterà di vini e di cantine, certo, ma cercando di non indugiare troppo in tecnicismi e prolisse note di degustazione, provando piuttosto a trasmettere le atmosfere e le sensazioni che hanno caratterizzato questo bel giro di Franciacorta. Ci sono anche un paio di consigli musicali per accompagnare la bevuta o la lettura, a cura di Loredana, l’altra sommelier del duo e grandissima conoscitrice di jazz.
Da Roma in quattro ore di treno si arriva a Brescia, si noleggia una sfiziosa citycar col tettuccio apribile (ottimiste a ragione) ed eccoci in mezzora ad Iseo, la base del nostro minitour.
ISEO
Colpevolmente, non conoscevo questo gioiellino a bordo lago. Deliziosa cittadina, di una placidità che mi ha richiamato alla memoria le storie lacustri di Piero Chiara, ma anche una di Giorgio Scerbanenco. Un’atmosfera accogliente e di eleganza discreta, niente affatto malinconica, a dispetto del luogo comune che vorrebbe il lago ispiratore di tristezze diffuse. Certo, facile se siamo a luglio, il sole splende e il cielo è di un azzurro fulgido…per smentire definitivamente il cliché mi riservo allora di tornare in autunno, ma sono sicura che il buon umore terrà anche con la nebbiolina di novembre.
IL COLMETTO
La sera siamo in un agriturismo consigliatoci da amici del posto, il Colmetto. Non si sarebbe potuto cominciar meglio la trasferta. Azienda agricola e allevamento di capre, con relativi formaggi e latticini. Resterà ben impresso nel ricordo per la bellezza dell’ambiente, semplice ma curatissimo, per un menu degustazione ottimamente concepito ed eseguito, per una bottiglia di Franciacorta che ci è proprio piaciuta, consigliata da un giovane e molto competente sommelier e infine per l’accoglienza nel suo insieme, davvero squisita.
Si torna in macchina verso la base con “Feeling Good” nella versione di Nina Simone a volume sostenuto.
La mattina presto, dopo una rilassata colazione ai tavolini vista lago dell’Antico Caffè Centrale di Iseo, dove conoscono la difficile arte del cappuccino perfetto, abbiamo tempo per una passeggiata nella Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino, sovrastata dal monastero cluniacense di San Pietro in Lamosa. Incontriamo due leprotti e un gambero d’acqua dolce dalle chele rossissime; purtroppo però il percorso si interrompe troppo presto, a causa delle forti piogge che hanno allagato il sentiero. Sarebbero serviti gli stivali di gomma, lo terremo presente per eventuali prossime visite.
RONCO CALINO
Non è che un piccolo inconveniente, perché tornate al parcheggio decappottiamo con entusiasmo la 500 a nolo e, attraversando un paesaggio leggermente ondulato di colline verdissime (con quel che ha piovuto…), arriviamo alla prima cantina in agenda: Ronco Calino.
Siamo tra Adro, Erbusco e Cazzago San Martino, lo scenario dei vigneti è veramente bellissimo. Una sobria costruzione moderna, bassa e ben integrata nel contesto, ospita il grande ambiente d’accoglienza, la sala degustazioni e gli uffici. Il grosso della cubatura però si sviluppa nascosto alla vista, nell’interrato, dove si trovano i vari locali della cantina.
Si percepisce subito un senso di ordine, razionale ma al contempo rilassato, un nitore diffuso che ritroveremo poi all’assaggio dei vini, una sorta di luce che deriva certamente dal paesaggio circostante, ma anche dalle scelte morbidamente vivaci e non scontate degli arredi. Un luogo che sussurra la parola benvenuti appena se ne varca la soglia.
Ad accoglierci Serena Bonomi (nomen omen, serenità e bonomia confermate), che ci racconterà Ronco Calino e i suoi vini con notevole competenza e coinvolgimento sincero.
Ci troviamo nel cuore dell’anfiteatro morenico che costituisce la Franciacorta, proprio sulle colline della morena frontale. L’azienda nasce nel 1996 grazie alla passione personale di Paolo Radici, noto imprenditore bergamasco proveniente da tutt’altro settore. L’attuale produzione, di circa 70 mila bottiglie per 13 ettari vitati, testimonia la volontà precisa di attestarsi su ritmi di crescita estremamente graduali.
La proprietà ad oggi è sempre della famiglia Radici, ma l’azienda, certificata biologica dal 2016, è gestita da una squadra di sette tra ragazzi e ragazze, tutti sotto i trent’anni.
Una chicca è stato scoprire che la casa di famiglia, che guarda i vigneti dall’alto di una collinetta, era un tempo la residenza estiva di Arturo Benedetti Michelangeli. In pratica, questi filari sono stati cullati per anni dalle note di uno dei più grandi pianisti del Novecento; anche per chi non crede all’influenza salvifica della musica sull’universo, non è un dettaglio insignificante…
Dopo gli iniziali lavori di zonazione, sono state individuate 26 parcelle, tutte collinari e diverse per suoli, esposizione e pendenze, che ospitano diversi cloni di chardonnay e pinot nero; su quest’ultimo in particolare si è deciso di investire da una quindicina d’anni ed è presente in tutte le etichette prodotte per almeno il 20%. La zona è risultata infatti ideale per il vitigno, grazie al clima fresco e asciutto e all’assenza di barriere tra i vigneti e le montagne della Valcamonica e dell’Adamello, le cui correnti arrivano in vigna mitigate dal lago.
Clima che consegna uve sane, grazie anche alla grande attenzione in vigna. Si vendemmia in genere durante l’ultima decade di agosto, raffreddando i grappoli e facendo in modo da estrarre il mosto dalla parte più vicina alla buccia, più ricca in aromi e acidità. Le parcelle vengono vinificate separatamente e una parte dei mosti di chardonnay fermenta in barrique di rovere francese. Molto lunghi i tempi di riposo in cantina.
GLI ASSAGGI
Abbiamo assaggiato, accompagnati dagli ottimi salumi e formaggi di un produttore di zona:
il Saten, dosato a 3,5 mg/litro, base del 2019 affinata 36 mesi sui lieviti, da una selezione delle parcelle in cui lo chardonnay è più floreale. Ed in effetti viene da pensare a frutti verdi ancora giovani, a fioriture primaverili, accompagnate da una lievissima nota speziata. Si gusta un sorso fine in linea con la tipologia, con frutto sapido, di un’acidità netta e precisa. Un bell’equilibrio davvero.
Il Brut senza annata, 80% chardonnay e 20% pinot nero, solo 2 grammi il dosaggio e oltre 40 mesi di sosta per la base anche qui del 2019, sboccato a ottobre 2023. Metà della produzione totale la fa questa etichetta, a cui vengono dedicate grandi cure. Equilibrio anche qui di sapidità, freschezza e frutto, palato dinamico e beverino; mi piace quando i vini cosiddetti base sono fatti così bene, perché diciamocelo, non è così difficile fare il grande vino dalla vigna migliore e in poche bottiglie.
Il Brut Nature 2018, non dosato, affinato 42 mesi. Di nuovo sapidità calibrata come filo conduttore, e delicatezza di fiori bianchi e frutti più pieni, come la pera e un ananas spruzzato di pepe bianco. La freschezza vivace e l’effervescenza cremosa invitano alla beva, un millesimato presente ma con levità.
Il Brut 2017, 2 grammi il dosaggio e si arriva a 55 mesi sui lieviti; qui il pinot nero è in quota importante, 40%, affiancato da uno chardonnay solo dalla parcella di Pozzo, con viti di oltre trent’anni sull’unica vena calcarea. La fermentazione di parte dello chardonnay in barrique nuove aggiunge complessità e spessore a una bollicina elegante al naso e al palato; profumi di scorze di agrumi e zenzero candito, di lavanda delicatamente pepata, perlage cremoso e fine e grande persistenza. Buonissimo adesso, credo che dimenticarselo in cantina e riprenderlo tra qualche anno confermerà la longevità che si intuisce.
Eccolo il leitmotiv che mi resta in mente dopo l’assaggio: pulizia, precisione, sapore e anche la prospettiva nel tempo. E la ricerca puntuale delle sfumature, in un gioco di gradazioni e contrappunti che coinvolge e si fa ricordare.
Ascoltiamo in macchina “Someone to watch over me”, Brad Mehldau, in onore di Arturo Benedetti Michelangeli che dall’alto veglia sulle vigne.
CORTE FUSIA
Nel pomeriggio ci aspetta invece Daniele Gentile, proprietario ed enologo di Corte Fusia, a Coccaglio.
Lasciandoci alle spalle le colline di Erbusco, ci si avvicina al profilo del Monte Orfano, che fa da quinta a sud della curva delle morene.
All’interno di una bella corte porticata, tipica delle secentesche cascine lombarde c’è la cantina, dove Daniele ci accoglie con una simpatia spontanea che arriva subito e genera sintonia. Ci racconta il progetto che ha realizzato nel 2010 insieme al suo socio Gigi, che cura la parte agronomica degli attuali nove ettari vitati, tutti in affitto, con una produzione annua di 35.000 bottiglie. L’ultima acquisizione è una vecchia vigna di due ettari proprio sotto il Monte Orfano e con il bosco intorno, allevata a pergola, decisamente inusuale da queste parti.
Dopo qualche anno di esperienza nei vigneti australiani di Margaret River, con le soddisfazioni ma anche le difficoltà che una terra così distante da noi inevitabilmente comporta, Daniele decide di tornare a casa e dar vita alla sua idea di Franciacorta. Un’idea strutturata intorno alla volontà di distinguersi, di essere riconoscibili, di restare aderenti al territorio intervenendo il meno possibile, che ci spiega essere prioritaria tra i viticoltori come lui di nuova generazione.
La constateremo assaggiando i suoi vini, questa idea, che individua nell’eleganza del frutto e non nell’acidità marcata l’identità delle bolle franciacortine.
Al termine della panoramica sull’azienda, ci propone di fare come prima cosa un giro dei vigneti a bordo del suo fuoristrada. Si scusa perché è polveroso e vissuto, ma arriva subito il chiarimento indispensabile: siamo due lady, è vero, ma qui non sappiamo che farcene di suv tirati a lucido atti allo struscio cittadino; in campagna si viaggia da campagna, polvere, pozzanghere, terriccio e zero maquillage.
Le vigne sono dislocate in diversi punti dell’areale bellissimo intorno al Monte Orfano, sia alle sue pendici sia nel punto più alto. Qua il microclima, siamo nella parte più meridionale della DOCG, è diverso rispetto al resto del territorio e le vendemmie possono slittare in avanti anche di un paio di settimane; nel terreno che stiamo attraversando è ben visibile la vena di terra rossa, di matrice argillo-calcarea e ricca di scheletro. Insieme al microclima, anche questi elementi distintivi rispetto agli altri areali fanno presagire vini di maggior struttura e sicura longevità.
Per arrivare alle vigne abbiamo attraversato un canale, la roggia Fusia, con il monte Orfano sullo sfondo (che è in realtà un’alta collina che svetta solitaria) e tanto verde a perdita d’occhio; uno scorcio così idilliaco che verrebbe voglia di saper dipingere.
Torniamo in corte per la degustazione, seduti sotto il porticato arredato con semplicità monacale: il lungo tavolone rustico e le sedie impagliate, gli attrezzi da lavoro appoggiati ai muri, le cassette di legno; contesto opposto rispetto alla ricercatezza di Ronco Calino ma altrettanto armonico e accogliente nella sua bellezza essenziale. Si sta bene, mi piace il momento di vuoto e silenzio che precede l’arrivo dei vini, mi piace pensare che magari si sentiva così anche Mario Soldati quando andava per cascine e cantine.
GLI ASSAGGI
E arrivano le bottiglie, pronte per l’assaggio tutte e cinque le etichette prodotte da Corte Fusia.
In cantina fermentazione in inox con lieviti selezionati neutri, temperatura controllata per evitare la malolattica, batonnage e tiraggio in primavera, lunghi affinamenti.
Grande impegno profuso per il biglietto da visita, vale a dire il Franciacorta Brut senza annata (ma da un’unica vendemmia), cui partecipano tutti e tre i vitigni coltivati, chardonnay, pinot nero e pinot bianco. Sboccato lo scorso marzo, parla con precisione di frutto e di sapidità e va veloce, nel senso che una bottiglia così si finisce in un attimo anche senza cibo.
Il Brut Rosé, tutto pinot nero, è fragrante al naso e polposo di frutti rossi vivacissimi, ha un sorso gustoso e scattante, vino conviviale all’ennesima potenza, anche qui si beve proprio volentieri e immagino un abbinamento saltando in un’altra zona di bollicine lombarde, con il salame di Varzi dell’Oltrepò.
In anteprima Daniele ci fa assaggiare il Saten, sboccato da pochi giorni. Chardonnay con un saldo di pinot bianco. Bella pulizia di profumi agrumati e floreali, netto di sapore, con una bella tensione, bolla delicata e avvolgente.
Altra anteprima il millesimato Brut Dosaggio Zero 2019, con 50 mesi di sosta sui lieviti, da chardonnay per l’85 e pinot nero per il restante 25%. Agrumi in polpa e scorza, accenni di ginestra, un fondo di erbe aromatiche molto piacevole e al sorso ritornano il sapido e il fresco, con un perlage stuzzicante.
Si finisce non bene, benissimo, con il Brut Orfano Terre Rosse 2014, poche le bottiglie prodotte. Franciacorta per me insolito, con una lieve ossidazione e che azzardo a paragonare ad un Jura. Note di paglia, di scorze dolci, fiori di camomilla e miele, attacco avvolgente e sapido e persistenza che si allunga di parecchio. Il mio preferito.
L’intenzione di Daniele e Gigi di far emergere con precisione la caratteristica fruttata la ritroviamo bene nei bicchieri, insieme a una bevibilità che cattura immediatamente.
Ebbene, il viaggio è poi continuato ma la premessa era di raccontarne un pezzettino. Nell’indecisione su come concludere – questi giorni sono stati proprio belli e rischierei di scadere nel retorico o nel banale – lascio la parola a Loredana per un ultimo suggerimento in musica, senza bisogno d’altro, perché “la musica è il rumore che pensa”. Victor Hugo.
“Moonchild/In Your Quiet Place”, Gary Burton, Keith Jarrett.
Mariella De Francesco
Ex astemia pentitissima, folgorata sulla via del Riesling, decido che è il caso di recuperare e prendo il diploma di sommelier. Mi scopro bianchista convinta oltre che, cosa assai poco originale, innamorata pazza dello champagne. Ogni viaggio che faccio, se ci sono vigne, prevede almeno un paio di cantine da visitare,
La laurea in Lettere non mi è mai servita per lavorare, però mi ha accompagnata nelle passioni che avevo già prima di scoprire il vino, come il cinema e l’arte. Fiorentina di nascita e di spirito, ho vissuto a Londra, in Svizzera, a Milano e di nuovo in Svizzera, per cui chiacchiero serenamente in inglese, francese e tedesco e mi arrangio con lo spagnolo (il milanese lo capisco ma non lo parlo…). Roma è da sempre una città del cuore e da quando sono arrivata non smetto di stupirmi per la qualità pazzesca dei vini laziali, bianchi in primis.