di Edoardo Fradeani
Bastano una quarantina di minuti di macchina assieme al mio amico sommelier Gianni Russo, per arrivare proprio lì, nel cuore della Tuscia, davanti al cancello di San Giovenale, luogo dove viene creato il mitico vino Habemus.
IL PROGETTO HABEMUS
Questo progetto dal calice giovane, perché ha poco meno di vent’anni, nasce da Emanuele Pangrazi, grandissimo imprenditore romano e proprietario di Tax Refund.
Qui si producono diversi vini, da Habemus Etichetta Rossa, che è un Cabernet Franc in purezza, all’Habemus Blu, con Grenache 100%, fino al suo spettacolare Syrah. Il protagonista vero rimane indubbiamente il suo primo vino, che ha reso tutto questo possibile: quella bottiglia che ha fatto innamorare l’Italia del Lazio, il grande Habemus Etichetta Bianca, blend esplosivo di Grenache, Syrah, Carignano e Tempranillo.
Tutto è successo in pochi anni, una scalata ai vertici del vino pazzesca, ma anche qui mi accorgo che dal cancello di questa tenuta, in un battibaleno, ci ritroviamo con Emanuele dentro un vecchio Defender bianco della Land Rover, guidato a tavoletta tra le sue colline. Per un attimo, tra una buca e una salita, mi sono sentito Alan Grant in Jurassic Park, mentre visita il parco delle meraviglie.
Emanuele, c’è un giorno, un istante o un preciso momento nel quale, da amante del vino, hai capito che volevi fare il vino?
“Nei primi anni 90’ quando ero poco più che ventenne, con la mia famiglia acquistammo questo terreno. Ricordo ancora la prima volta che ho visto questa terra circondata da un paesaggio incredibile ed unica, direi, nel suo essere selvaggia. Me ne sono innamorato sin dal primo sguardo, ma il vino è una cosa successiva. Prima di fare tutto quello che vedi oggi qui, non mi reputavo un grande amante o appassionato di vino; anzi, inizialmente ci stava la voglia di mettersi a fare olio, cosa tipica da queste parti. Poi un giorno ci siamo decisi a fare questo passo. All’inizio era tutta ricerca e mi ricordo che chiesi quale fosse il miglior vino del mondo e la risposta fu ovvia: ovvero “Romanee Conti”. Volevo sviscerare il mito, sapere come fosse fatto questo famoso nettare, la storia o il perché fosse così grande, cominciando pian piano a capire i principi della bio dinamica, applicata alla coltivazione ed a tutto il resto. Questo è stato il punto di partenza che, assieme a mio padre e ad altre persone fantastiche, ha dato il contributo ad una continua voglia di sapere, che ancora oggi non trova mai sosta. Anche l’incontro successivo con il mio consulente, Marco Casolanetti, lo considero un momento molto importante per Habemus. Dal 2006 San Giovenale è il mio piccolo paradiso, poi tutto evolve e quindi allo stesso tempo, è anche il mio dolce inferno.”
Habemus in tutte le sue etichette non piace e basta, ma emoziona, e questo non è da tutti. L’equilibrio e quel senso che ti avvolge quando si bevono i tuoi vini è un motivo di grande orgoglio per la nostra regione. Cosa c’è dietro tutto questo lavoro che fai?
“Guardati attorno. Non è sbalorditivo? Adesso siamo qui tra le vigne e tutto quello che devi notare è una cosa meravigliosa e indissolubile, ovvero ciò che gira attorno a questi ettari. Ci sono i Monti Cimini a nord e a sud i Monti Sabatini. Un fattore fondamentale è la presenza del mare che, come puoi ben vedere, è a circa 9 km in linea d’aria. Oltre a questo, la valle è accerchiata dai boschi. C’è il Parco Regionale Marturanum, la Macchia del Vallone e infine, ad ovest, la Macchia Nuova. Questi fungono da filtro per le correnti sia calde che fredde, dando un contributo fondamentale a questi vigneti che, a loro volta, vengono abbracciati da un’escursione termica tra notte e giorno strepitosa. Sicuramente è il posto che rende tutto speciale, ma c’è anche la voglia di non fermarsi mai. Attraverso ‘l’empirismo scientifico’, così l’ho voluto ribattezzare, ho cercato di trasformare al meglio quello che hanno inventato prima di me. Lo dico sempre: io non ho inventato nulla, ma sicuramente è stata la mia voce interna che mi ha sussurrato di fare quello che si è sempre fatto nella viticoltura, a patto di realizzarlo ai massimi livelli. L’empirismo si basa sull’osservazione. Valuti l’asciutto, la scarsa piovosità o l’aria marina così, di conseguenza, agisci su quello che hai davanti a te. Le coltivazioni fino a settant’anni fa erano fatte prevalentemente ad alberello; io uso questa tecnica antica o, meglio, ad alberello con un tutore che indubbiamente dà una marcia in più, consentendo una grande estensione ma, bada bene, mai con lo scopo di una metodologia intensiva. Nelle Appellation più rinomate devi avere minimo 10.000 mila piante per ettaro, con un metro per un metro: sono i disciplinari scritti su carta, è da manuale, direi scontato, anzi borghese. Invece, a volte mi guardano come un extra terrestre per le mie dodici o tredicimila coltivazioni per ettaro; ma perché? Mi aggrappo a quello che è nella normalità nelle mitiche zone francesi: qui non vale? Le piante così ravvicinate creano la famosa competitività, che dona pura qualità al grappolo. Altra cosa fondamentale è quella che in un cordone speronato potresti avere dieci, quindici, venti occhi? Noi, invece, utilizziamo uno sperone e due occhi, di conseguenza capisci bene che questa pianta diventa una Maserati che accelera e mette dentro al motore tutto il meglio. Qui non trovi una curva a novanta gradi: pensa alla macchina che ti ho appena detto, se devi sterzare perdi velocità mentre qui è tutto verticale. Se osserviamo bene il frutto, sta a cinquanta centimetri d’altezza, quindi la distanza a livello linfatico tra le radici e il grappolo è poca e il percorso diventa breve. Questo dà un risultato ottimale, soprattutto anche nei momenti di stress climatici. Se molti con una pianta fanno cinque chili di uva, quel pazzo che sono io ne fa duecentocinquanta grammi. Ed ecco qui il bivio tra chi vuole rompere le uova e chi no, per fare quella frittata chiamata vino. Noi facciamo 10.000 mila bottiglie l’anno, con più di quindici ettari vitati. Ci sono poi tanti altri fattori, dalla vinificazione, all’affinamento per poi arrivare alle nostre bottiglie. Sono davvero tanti gli aspetti di Habemus. Sicuramente una cosa te la posso dire, che ho tutta l’eternità per riposarmi.”
Ti chiedono sempre perchéé hai scelto vitigni come Grenache, Syrah, Carignano o Tempranillo, senza mai aver cercato qualcosa di più autoctono. In realtà, hai fatto una scelta ponderata, giusta e forse scontata, proprio perché sono vitigni che si trovano molto nella costa mediterranea. Come hai intuito che nelle tue terre queste uve avrebbero dato qualcosa di più rispetto agli altri produttori, anzi qualcosa di così straordinario?
Anche qui la scelta è stata dettata dalla storia. Pensiamo un attimo ai grandi maestri che hanno coltivato questi vitigni per secoli lungo le coste spagnole, francesi, per poi scendere giù in Italia. l’Alicante, sinonimo della Granaccia, Tempranillo che è un biotipo della Malvasia Nera o il mitico Carignano che non sta solo in Sardegna, ci sono sempre stati. Ci sarà un motivo valido? Io credo di sì. La prova che questi vitigni siano costieri e protagonisti dentro una determinata condizione pedo-climatica è schiacciante. Mi sono attenuto al basico, ho scelto quello che tutti hanno fatto in tanti territori che hanno una collocazione geografica simile alla mia. Sì, molte volte mi chiedono come mai non abbia fatto una scelta autoctona. Io rispondo sempre in maniera scherzosa, dicendo che con l’autoctono laziale sarei diventato il solito copione, in senso buono chiaramente. Invece optando per questa scelta ho fatto il copione dei copioni, e ne sono felice sai perché? Proprio per un motivo fondamentale, ovvero farlo in maniera diversa, aggiungendo e levando sempre qualche cosa, sperimentando. Questo cambia il tutto. Ripeto, nessuno s’inventa niente di nuovo oggi. Se Michelangelo è diventato cieco per dipingere la Cappella Sistina, dobbiamo prendere spunto da lui, non come punto di arrivo perché i geni sono geni, ma come ispirazione. Mi ricordo un’intervista che facemmo a Mario Boselli per l’allora rivista di Tax Refund che disse: “Il made in Italy è il bello ben fatto”. Quindi se parliamo di vino, che fa parte della nostra cultura, bisogna farlo bene. Alla fine, se alloctono o autoctono non importa a nessuno. Rispetto agli altri? Ho sfruttato le qualità della territorialità, per me davvero uniche.
Da poco è uscito il tuo primo bianco, Habemus “Etichetta oro”, fatto con Marsanne e Roussane, tipici soprattutto della Valle del Rodano. Come ti è venuto in mente questo vino?
“Marsanne e Roussane fanno parte di una lunga sperimentazione che ho fatto negli anni passati. Adesso lo sto facendo anche con il Mourvedre. Mi fa sorridere il fatto di essere considerato il produttore dai vitigni internazionali, penso di essermi spiegato abbastanza su questo argomento, ma questa continua domanda sulle mie scelte, da parte di tutti, forse è stata la chiave che mi ha spinto per arrivare alla creazione di questo vino. Alla fine, se con i miei vini rossi gioco in Serie A, con il bianco ho pensato di giocare in Champions League. Almeno qui si parla davvero d’internazionale.”
Cosa manca alla Tuscia, o meglio a tutto il Lazio, per vedere più realtà simili alla tua?
Secondo me, ci vogliono le buone pratiche, che sono state dismesse negli anni, e tanto sacrificio, ma credo che la cosa più importante siano le intuizioni. Io compatisco le persone che necessitano del così detto relax, della famosa frase ‘ho bisogno di staccare’. Nel mio modo di vivere questo non è contemplato: ‘chi s’accontenta muore’, dico sempre. Ti faccio un esempio. Immaginati quando torni a casa la sera ed è tutto buio, e aprendo la porta devi accendere la luce. Tutto ciò può sembrarti una situazione distensiva, calma. Per vedere meglio cerchi il primo interruttore, lo accendi, e lì cosa succede? La casa per darti luce va in tensione. Questo concetto vuole esprimere semplicemente quello di essere pronti ad esplicare sempre la vitalità nelle idee e nel lavoro, far battere il cuore, partendo da ciò che ti circonda. Il buon imprenditore deve avere due cose, visione e organizzazione.
Nell’avere visione, a volte devi guardare più indietro, che avanti. Purtroppo, oggi stanno asfaltando la nostra cultura, magari per costruirci un bel parcheggio. Ho cercato anche di coinvolgere una parte di pubblico che ha avuto piacere a finanziare e supportare. Quando chiama San Giovenale nessuno sta sull’attenti, ma tutti si sentono di far parte di un progetto. Questo per me è fondamentale.”
Cosa non tolleri nel mondo del vino?
“Facevi prima a pormi la domanda opposta. Scherzo. Ho conosciuto un sacco di gente in gamba, come collaboratori, appassionati e grandi produttori che amano davvero il vino; questo naturalmente è ancora più appagante per me. Ovvio, siamo in un paese competitivo, che da una parte genera la voglia di fare, dall’altra crea tanta autoreferenzialità che distrugge la cooperazione, ma soprattutto genera conflitti inutili e controproducenti. Una volta chiesi a Christiane Perato, compagna storica di Veronelli e grande estimatrice del nostro paese, con la quale collaboro ormai da anni, cosa non le piacesse dell’Italia. Mi rispose dicendo: “La vostra litigiosità”. In realtà, lei cercò di spiegarmi quanto fosse buffo il fatto che a livello di densità popolare siamo come i francesi, circa 60 milioni, ma la cosa che la faceva più impazzire era questo numero rapportato ad un territorio più piccolo, quasi meno della metà rispetto alla Francia, vuoi un po’ anche per le zone disabitate o per le nostre bellissime catene montuose. Il risultato, alla fine, sono 60 milioni troppo vicini fra loro, che sbracciano per farsi avanti, che litigano. Eppure, se fossimo più uniti potremmo vincere su tutto, non ci sarebbe storia per nessuno.”
Beh! Io ti ringrazio, ma ti voglio chiedere un’ultima cosa. Se fossi confinato in un’isola deserta per diversi mesi, quale disco porteresti con te ma, soprattutto, quale Habemus?
“Ti direi tre pezzi. Il primo è ‘Can’t Take My Eyes Off You’ di Gloria Gaynor, perché mi ricorda l’innamoramento durante i miei quattordici anni, il cuore che batte, la scoperta dell’amore puro, ma anche la capacità nel rinnamorarsi tutte le volte.
‘Heroes’ di David Bowie, che esprime nel passaggio ‘We can be heroes, just for one day’ il concetto di tempo, perché questo purtroppo è limitato. Ci trovo dentro anche la temerarietà, non percepita da te stesso, perché in qualche modo sai che raggiungerai lo scopo, ma il coraggio che gli altri vedono in te quando fai qualcosa di grande. L’ultimo ti direi ‘Quiero Saber’ dei Gipsy Kings. Una canzone che rappresenta, per me, la capacità di convivere con il dolore ed io, purtroppo, l’ho provato ai massimi livelli; per poi arrivare ad un altro messaggio che risiede nella canzone: la consapevolezza, unica fonte di energia che ti fa affrontare la vita per dritto, senza nascondersi.”
Però ti sei dimenticato il vino…
“Non mi chiedere di scegliere: i vini sono come i figli. Come faccio a dirtelo? Me li porterei tutti con me. Però forse, anche se sono agnostico, ad una cena di produttori lassù, con San Pietro, porterei Habemus 2016 etichetta rossa. Non tanto perché migliore degli altri, semplicemente per il fatto che il territorio in quella bottiglia, sovrasta lo spiccato varietale del Cabernet Franc. Questa è una prova che San Giovenale ha vinto la scommessa.”
Grazie di tutto Emanuele, alla prossima.
Il giorno dopo questa intervista, giravo nervosamente nella penombra di casa mia come un’anima in pena. Ripensavo a tutto il percorso fatto dentro San Giovenale, dal giro nel vecchio Defender, alle passeggiate fra le vigne, fino all’assaggio dei vini direttamente dalle barriques; ma, soprattutto, alle parole di Emanuele.
Sin dalla prima volta che ho bevuto questi splendidi vini me ne sono innamorato subito. Eppure, sono tutti vitigni che, nella maggior parte dei casi, sono lontani dal mio centro gravitazionale del gusto. Cercavo di trovare un maledetto nesso a tutto questo. Si dice sempre che nel vino si trova la vita di chi lo produce, che il vino assomiglia al proprio padre. Ed è in un attimo che mi accorgo che questa teoria è sempre più vera. Habemus, in tutte le sue espressioni, è una bevuta che ti entra a 300 km orari in bocca, dotato di una straordinaria freschezza, ma che lascia con sé una scia di morbidezza che ti avvolge completamente. La tensione e la distensione, la velocità e la lentezza che va a tempo in maniera perfetta. Emanuele Pangrazi è proprio questo, la rappresentazione delle idee, dello smontare e rimontare, del non fermarsi mai, della sfumatura che rende netto il confine e della vita vissuta, come dice lui, in una sua “comfort zone che è fuori da una comfort zone”.
Due cose che si fondono nella stessa persona, che un giorno è nel suo vestito da imprenditore, che macina e crea, e in quello dopo è l’agricoltore, che vive di fatiche e sogni da realizzare. Forse lui, in qualche modo, ci regala quella coccola che dovrebbe darci quella spinta in più, che ci accompagna alla nostra prossima avventura o, semplicemente, alla nostra prossima intuizione. Sono queste, in qualche modo, le persone che mettono emozioni nel calice, proprio perché sono nate sotto una stella che ti fa vivere in un’altra maniera, dove il successo, la grandezza, la felicità e anche il dolore, non sono scanditi da delle pause, ma da un continuo movimento, da un inossidabile punto di partenza e mai di arrivo.
Mi accendo una sigaretta appoggiato all’interruttore della luce, schiaccio il pulsante e mi metto a fissare il salone che ora non è più in penombra, ma è in “tensione”. In qualche modo mi piace immaginare la prima annata di questo vino. Provo a pensare ad Emanuele e alla sua famiglia che assaggiano la prima bottiglia di questo capolavoro, all’emozione che hanno provato, magari con una fumata non bianca, ma bensì rosso rubino che piano piano, salendo nel cielo della Tuscia, annunciava all’Italia che in fin dei conti, anche noi romani….HABEMUS VINO!
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San Giovenale Agricola Srl.
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