IL TALENTO E’ TANNICO – intervista a Daniela Scrobogna

DANIELA SCROBOGNA
INTERVISTA A DANIELA SCROBOGNA
di Edoardo Fradeani

La vita mi ha sempre fatto pensare ai caselli autostradali, dove fai la fila per pagare aspettando che la sbarra si alzi per darti il via libera.

Ci sta il casello più economico, quello più costoso o anche quello che subito dopo, ha un’area ristoro, dove hai la possibilità di prenderti un caffè di dubbio gusto, un pacchetto di sigarette e sì: “mi dia anche la Repubblica”.

Il problema è quanti ne devi passare per arrivare ad una guida stabile, concreta, che ti possa accompagnare nella consapevolezza di scegliere l’uscita giusta. Tutto ciò potrebbe essere una visione piuttosto banale e il parafrasare alcune cose con un modo evocativo, è più forte di me. Non ricordo esattamente quando, ma in una delle mie tante soste, ho incontrato delle persone straordinarie che ancora oggi, mi fanno comprendere quanto la strada del vino, possa essere una panoramica di paesaggi meravigliosi.

DANIELA SCROBOGNA

Non avrei mai pensato di essere io a fare delle domande ad una mia docente, a colei che mi ha insegnato ed esaminato per diventare Sommelier. Eppure, eccomi lì, con la grande Daniela Scrobogna.

Non è solo una maestra del vino. Difatti, se dovessi pensare a qualche immagine che starebbe perfettamente in “palette” con questa persona, mi viene in mente il lancio dai sessanta metri di Pirlo, il tocco alla chitarra di David Gilmour, l’eleganza di Grace Kelly e talvolta l’ironia e la romanità di Sordi. Un mix perfetto che impasta e dà forma ad un talento indiscusso, quello di una donna che racconta davvero cosa sia il vino.

DANIELA SCROBOGNA
L’INTERVISTA
Esiste sempre un punto della vita in cui ci rendiamo conto di essere rapiti da una passione, di diventare ostaggi senza riscatto. Quando, ma soprattutto con quale calice, il suo naso le ha fatto capire che il vino sarebbe diventata la sua vita?

Evidentemente parliamo di qualche annetto fa. Non ho scoperto il vino per merito dei corsi, ma per degli amici stranieri appassionati di vino.

La prima volta che assaggiai un vino che mi emozionò, fu un vino francese.

Poi subito dopo, quando mi sono avvicinata ai vini italiani, quello che mi ha aperto la mente e che mi sconvolse, fu un Sauvignon. L’azienda era “Vie Di Romans”, in quegli anni andava molto di moda. Da qui è cominciato tutto e non mi sono mai fermata. Devo dirti che non ho mai avuto difficoltà nel degustare o nel sapere come colloquiare con il vino. Non mi prendo nessun merito, perché forse ero solo portata per tutto ciò, quindi non ho mai fatto sforzi. Forse la fatica è stata sicuramente quella di crescere, nell’approfondire il vino. All’epoca però era davvero difficile, perché ho dovuto subire disagi nel farmi strada e nell’andare avanti, soprattutto per la solita disparità tra donna e uomo. Non voglio dire che mi arrivassero addosso maldicenze, ma comunque ero vista con sospetto e questo magari faceva passare avanti persone meno capaci di me. Insomma, avere la famosa credibilità era tosto.

Adesso ascoltare donne che parlano di vino è all’ordine del giorno e ne sono felice.

Sono questioni, come in altri ambienti che, fortunatamente, sono state ampiamente superate.

Sicuramente tutto questo è stato possibile anche grazie ai miei maestri, come Sandro Sangiorgi e Daniele Cernilli, che sono stati eccezionali nel forgiarmi e nel darmi gli strumenti giusti.

Era tutto diverso, pensa anche ai social: oggi puoi postare la foto di un vino, far sapere a tutti che cosa hai degustato. Prima era tutto “sottotraccia”, un mondo affascinante che si scopriva piano piano, ma a chi lo raccontavi? Sembravamo dei carbonari che si riunivano in note enoteche di Roma, per degustare e parlare di cibo e vino. Ci sentivamo il popolo eletto, non come una élite con la puzza sotto al naso ma, semplicemente, perché si discuteva di cultura attraverso il vino. Oggi tutto ciò lo diamo per scontato.

I divorzi a volte rigenerano l’anima. Tanti anni in Ais e poi nella mitica Fondazione Italiana Sommelier. La storia la conosciamo, ma il suo stato d’animo no. Come ha vissuto all’epoca questo cambiamento? Sia come persona che come docente?

Purtroppo, i divorzi qualche strascico o qualche “cadavere” lo lasciano sempre. Quello che mi ha fatto più male all’epoca, di tutta questa vicenda, non è stato il fatto di prendere una decisione o di passare a questo cambiamento, ma sono stati i commenti, le critiche tremende che sono arrivate dopo, direi vere e proprie offese.

Alcune persone hanno parlato a sproposito, senza sapere la verità.

Noi eravamo Ais Roma, ed è sempre stata una realtà a parte, che ha fatto sempre la cultura del vino, anche tramite la guida di Bibenda. Per non parlare anche del sostegno che noi davamo ai corsi.

Io stavo nella didattica dell’Ais e ho cercato di cambiarla disperatamente, perché era tutto ancorato e fermo ad un sistema vecchio. Andavo in certe delegazioni per gli esami e mi trovavo, talvolta, in situazioni surreali.

In effetti, eravamo dei “separati in casa”, quindi la svolta era nell’aria.

UNA DEGUSTAZIONE GUIDATA DA DANIELA DI LUPICAIA

Ho sofferto tanto queste critiche nei nostri riguardi e mi dispiace, perché ho voluto bene all’Ais e gli ho dedicato tanti anni della mia vita. Fortuna che noi docenti eravamo molto compatti e uniti, anche nel fare questo salto, che ha decretato un cambiamento in meglio. Ma, lo voglio ribadire, io ero già prima con Ais Roma, rispetto ad Ais Nazionale.

Oggi quello che per noi è fondamentale è la degustazione, saper parlare con il vino e non imparare tutte le Doc o Docg a memoria. La teoria è importante, per carità; ma se poi dedichi poco tempo alla degustazione, ti trovi in seria difficoltà, facendo scattare un meccanismo di paura quando si va al confronto con un calice.

Adesso? Siamo in un’altra dimensione.

Più si va avanti e più le cose si deteriorano, cambiano e prendono una strada più stretta. Nel vino italiano è successo il contrario. Da poco a tanto, da scarso ad eccellente, soprattutto nelle tecniche di vinificazione il risultato è cambiato in meglio. Di quanto tempo fa si parla? E quanto ha impattato questo cambiamento nella sua personale percezione del vino?

Un cambiamento reale e tangibile l’abbiamo cominciato a percepire a fine anni Novanta e inizi Duemila. Molto probabilmente, complice anche il confronto che abbiamo avuto con il mercato internazionale.

Questo, nel bene e nel male, ha portato una nuova era nella messa a punto di alcuni vini, con una maggiore consapevolezza.

Parlo soprattutto di alcuni territori che magari si erano adagiati nel tempo, vinificando senza grosse pretese.

Poi sono arrivati i vini dalla Nuova Zelanda, California e il grande flusso francese con Loira, Bordeaux, Rodano, Borgogna ecc.

Tutto questo ha risvegliato il fare vino nel nostro paese. Guarda anche lo Champagne, oggi si fanno un sacco di seminari, degustazioni in ristoranti, enoteche; prima era per pochi, a volte esagerando anche un po’, perché in quell’ambito, seppur diversissimi, noi abbiamo degli ottimi prodotti, senza fare sciovinismo. Ma credo sia così. Ecco, l’ho percepito come un periodo quasi di “sottomissione”, che pian piano si è liberato ed elevato, anche grazie a queste influenze internazionali.

Aggiungerei anche il grazie a una comunicazione sana del vino, che non è solo critica in quanto tale, cominciata da Veronelli, poi da Cernilli, Luciano di Lello e tanti altri.

Una scuola di pensiero basata sulla comunicazione, che aveva come scopo la crescita. Tutto ciò ha spinto il produttore a tirare fuori il meglio di sé, sempre con il rispetto di una sana critica verso il lavoro che c’è dietro questo mondo. Purtroppo, anche qui, oggi la comunicazione è veloce grazie ai mezzi che abbiamo, e diventa talvolta cieca e spietata. Ne leggo tante di cose…ma vabbè, andiamo avanti.

La guerra tra esperti, appassionati e Sommelier, si combatte tra il convenzionale e il biodinamico e soprattutto anche tra chi preferisce l’autoctono al vitigno internazionale. Quando finisce questo confine? Quanto è utile fare questa distinzione, anche quando un vitigno prende la nostra cittadinanza?

Io sono un’appassionata di biodinamica; l’ho scoperta perché le teorie di Steiner le ho sempre seguite e approfondite e perché mi sono messa in gioco assaggiando vini biodinamici francesi, scoprendo Dettori, Tenuta di Valgiano e tanti altri.

Abbiamo fatto un corso qualche anno fa sulla biodinamica e devo dire che è stato illuminante.

Alcuni, però, hanno delle remore su questo modo di fare vino e posso capirlo, essendo un percorso conoscitivo molto lungo e difficile. Poi, come accade anche nel metodo convenzionale, ci sta quello che lavora bene e quello che lavora male.

Credo ci sia posto per tutti. Prendiamoci meno sul serio: certe volte si esagera.

Ci deve essere un approccio più libero tra chi produce il vino e come lo si vuole produrre, fino ad arrivare al degustatore finale, indipendentemente dalla scuola di pensiero.

Per quanto riguarda i vitigni, per me è importante che il vino sia fatto bene: deve rispondere ad un territorio, con una sua profondità; deve esistere il legame con lo spazio circostante. Alla fine, se ad esempio nel nostro Lazio viene prodotta una grande Malvasia Puntinata, un favoloso Bellone, io non posso che esserne felice; soprattutto nel vedere vini e vitigni identitari di una zona specifica. Ma se anche uno Chardonnay o un Viognier riescono a dare una visione territoriale, io lo metto in conto. Perché fare tutti questi partiti o diatribe? Personalmente non lo condivido. Tante volte mi sono presa le mie colpe. Anche io, tempo fa, potevo dirti che trovavo banale un Merlot o un vitigno internazionale blasonato nel nostro stivale; poi ho capito che non dipende dalla banalità del vitigno, ma dall’intervento e dal racconto del produttore e il suo territorio.

UN GRANDE MERLOT ITALIANO PER DANIELA: IL MASSETO

Magari, se si usano legni in maniera sbagliata, dando una visione pompata e statica del vitigno, ti dico sì: può diventare noioso. Ma se io o te, che vogliamo fare un vino, gli diamo una visione personale, se lo facciamo nel modo corretto, magari con vigne che hanno una certa età e creando questo famoso legame con la zona in cui viene usato questo vitigno internazionale, perché no? Facciamo un esempio: il Masseto può piacere o non piacere, lasciando perdere i costi. Magari nella sua prima fase di vita il legno può marcare troppo, ma se andiamo a degustarne uno con un po’ più di anni sulle spalle…ragazzi! Che sia un Merlot o un altro vitigno, ma chi se ne frega! È un vino unico: per quella sua argilla, per quei terreni ma, soprattutto, è un vino che può competere con i grandi Merlot di Pomerol. Anche il Cabernet Franc: io adoro quello della Loira nella zona di Samur Champigny e questo vitigno, da quelle parti, ha dei sentori unici, dove si spoglia da quelle tipiche note vegetali; un’espressione commovente. Negli anni, però, abbiamo potuto vedere quanto il Cabernet Franc si sia espresso in maniera eccezionale e unica anche nelle zone bolgheresi. Quindi sì, un vitigno internazionale può parlare la nostra lingua e, magari, prendere la cittadinanza a pieni voti. Alla fine, stiamo parlando di vino, ricordiamocelo sempre.

Docente, presidente del comitato scientifico, bella e affascinante. Uno tra i Sommelier più bravi al mondo. La domanda vien da sé: come ci si sente ad essere una rockstar del vino?

Eh! Vabbè, non mi far ridere. Ti posso dire che la mia storia nasce da due passioni, quella dell’architettura e quella del vino. Avevo questi due grandi mondi che ruotavano attorno a me. Il disegno, l’arte e poi quello di cui stiamo parlando. Immaginati mia madre quando mi ero messa in testa di lasciare l’università per intraprendere questa strada, poi da donna e con tutte le difficoltà che ti ho detto. Ricordo ancora il mio essere spontanea nel raccontare alla mia famiglia quello che provavo per questo amore incontrollabile.

Alla fine, ho finito l’università, ma la passione per il vino non mi ha mai delusa e sono sempre andata avanti con la voglia di imparare, sempre di più; con tutta la fatica che, indubbiamente, mi ha reso coriacea. A volte lo sono troppo: difatti, mi accorgo anche a lezione che vorrei essere più rilassata; ma non riesco a non sentirmi docente e la mia missione è quella di farti imparare. Forse sono un po’ rigida, ma voglio essere così come sono. Rockstar? Non penso che mi rispecchi.

C’è qualche volta, nella sua vita privata, il momento in cui beve solo per piacere e non degusta? O è più forte di lei l’analisi sensoriale?

Domanda difficile. A casa non bevo quasi mai, spesso torno tardi per il lavoro. Qualche volta mi posso bere un calice volante, ma è difficile. Le uniche volte dove, magari, ci sta spensieratezza è con i fantastici docenti che hai conosciuto anche tu; perché oltre al lavoro si è costruita, nel tempo, una vera amicizia tra di noi. Ci organizziamo con delle belle bottiglie, messe da parte proprio per queste occasioni e le apriamo per godere del vino. La cosa più triste è aprire bottiglie, a te molto care, con persone che non capiscono quello fai, che non lo comprendono proprio. Non c’è niente di peggio. Quindi con questi amici di sempre degustiamo ma, soprattutto, assaporiamo il momento dello stare assieme con il vino, che forse è diverso.

DANIELA SCROBOGNA CON I COLLEGHI ED AMICI, DOCENTI “STORICI” DELLA FIS (da sinistra Daniela, Paolo Lauciani, Giovanni Lai, Massimo Billetto e Luciano Mallozzi)
Il vino in amore l’ha mai accompagnata? O meglio, ha mai sedotto con il vino?

Sedotto con il vino sì: è capitato. Mi viene in mente una volta in cui mi avevano incaricato di fare la presentazione di alcuni vini per un presidente di una grossa casa automobilistica tedesca, ma non ti dico quale. Volevano dei vini italiani che potessero rappresentare il marchio e li presentai nel suo ufficio, descrivendoli e raccontando un po’ la storia di queste bottiglie. Ricordo che rimase molto affascinato da questi vini, acquistandoli immediatamente. Poi, nel corso del tempo, si è capito che era rimasto anche affascinato da me, forse per quello che avevo emanato per via del vino…vai a capire.

Di conseguenza, qual è il vino italiano più sensuale?

Per me è il Faro Palari. Quando lo bevo mi evoca sia la magia del Nerello, ma anche quelle particolari zone di Messina, fino ad arrivare al suo produttore, Salvatore Geraci, personaggio favoloso. Ce ne sono tanti, ma questo è un vino che ho amato, amo ancora e che non mi ha mai deluso. Unico.

Sono stato suo allievo. Lei è esigente, seria, professionale e severa. Poi ad un tratto ho scoperto di avere davanti una persona ironica, dolce e con la battuta sempre pronta. Dovrebbe essere il tanto ambito equilibrio tra morbidezze e durezze. Cosa preferisce tra queste due sponde opposte nel vino e nella vita?

Purtroppo, devo dire la durezza. Non amo la morbidezza, non amo i dolci.

Mi piace il caffè amaro, il tannino e l’acidità. Sai bene che sono un’appassionata di Riesling della Mosella: qui la freschezza ne fa da padrona. Amo la verticalità. Non mi piace la pienezza, la troppa struttura e l’alcolicità; credo che, di conseguenza, il vino rispecchi me stessa. Apparentemente sono algida, mentre tu hai scoperto che sono anche altro, evidentemente perché ti ho permesso di farti vedere questo lato. Se ti posso dire la verità, non riesco a gestire gli spiragli di un qualcosa di diverso, ecco perché magari, a volte, mi chiudo a riccio.

Tre pregi e tre difetti di Daniela Scrobogna?

Tre da una parte e tre dall’altra non saprei, i difetti potrebbero essere tanti. Ti posso dire che sono generosa e onesta, questo me lo riconosco. Un difetto? Sono molto permalosa.

Ci sono due tavoli, in uno sono seduti Jimi Hendrix e Miles Davis, nell’altro ci sono Stravinskij e Debussy. Con chi si siederebbe a parlare? Ma soprattutto quale bottiglia berrebbe con loro?

Mamma mia che mi stai chiedendo! Ti prego, non posso parlare tra un tavolo e l’altro? La musica classica fa parte di me ma, istintivamente, ti devo dire che mi siederei con Jimi Hendrix e Miles Davis, perché sono nel mio sangue.

Rock e Jazz sono metà del mio DNA musicale. Con loro, anche qui andrei con dei bei Riesling, acidi e potenti: vini rock! Su un rosso, magari ti direi Nebbiolo, anche se non proprio un Barolo. Ci vedrei bene dei vini che ultimamente amo molto, ovvero quelli della parte nord del Piemonte, come Gattinara o Boca. Ma, perché no, anche un Sangiovese. Che ne dici di un bel Flaccianello? Però quello magari lo berrei più con Sting.

Una cosa che nessuno sa di lei?

Gli animali: li adoro e tutto questo s’identifica con un forte legame che ho con i gatti. Li amo alla follia, non saprei come descriverti questa unione a pelle che ho con loro. Mi manca quella sensazione, soprattutto in questo momento dove, purtroppo, tempo e lavoro non mi permettono di riaverli. Mi mancano tanto.

Grazie

Dopo questa intervista, appoggiato alla ringhiera dell’hotel Cavalieri di Roma, sono arrivati i miei soliti dieci minuti di perché. Ho ripensato a questi anni fantastici lì dentro ma, soprattutto, a quanto tutto ciò mi manchi dannatamente.

Per me iniziò come una fuga dall’ordinario, come boccate d’ossigeno per sentirmi libero dal mio lavoro, ma mi accorgo solo adesso che il vino è diventato il mio dolce inferno. Quando facevo il corso, amavo arrivare in anticipo, passavo per salutare gli amici di Bibendamania, per poi sedermi in sala più o meno in terza fila che, secondo me, è il giusto compromesso di distanza tra un allievo e un docente.

Poco prima dell’inizio della lezione, mi piaceva osservare questa donna che traccheggiava con fogli, penne e il suo portatile. Metteva musica in sottofondo, mentre finiva di preparare la lezione e i gusti, anche qui, erano eccezionali. Ero sempre combattuto nell’alzarmi ed andare da lei. Morivo dalla voglia di parlarci, per sapere cosa ne pensasse di questo o quell’altro vino. Avrei voluto farle mille domande, ma non trovavo mai il coraggio, così il tempo scadeva, mentre lei doveva iniziare. Durante l’intervista la guardavo negli occhi e notavo questa luce: un particolare che file di banchi, durante il corso, non mi avevano mai fatto notare.

Quella è la luce di chi ha ancora fame di sapere, di chi ama quello che fa; di chi sa di avere un talento, ma che non bisogna mai smettere di annaffiarlo; di chi ha sofferto per arrivare fino a lì e di chi, in fin dei conti, tutta questa “durezza” la mette solo in una maschera, per non farti mai distrarre.

Grazie per avermi fatto capire la vita del vino e quanto sia importante fermarsi a ragionare sempre su quello che abbiamo davanti.

Grazie per aver illuminato i confini tra il fascino e la bellezza, ma grazie anche per avermi fatto comprendere che il Sassicaia è un grande vino, attraverso la semplicità delle cose. Tutto quello che posso dire a voi, enoviaggiatori, è che, se un giorno percorrerete questa strada, fermatevi a questo casello e diventate Sommelier, perché lo slogan che io all’inizio non capivo è vero: “Il vino ti cambia la vita”. 

Io? In un locale a quale tavolo mi siederei? Per come stanno le cose oggi ma, soprattutto, per il modo in cui questa passione sta bruciando dentro di me, in quello dove sarebbe seduta lei, mia cara Prof. Senza barriere, senza più banchi o cattedre. Per rubarle ogni dettaglio, ogni sua sfumatura, per imparare ancora e ancora. Magari in sottofondo nel locale, sarebbe perfetta la canzone “Cold Woman” dei So Lune, che aiuterebbe in qualche modo a congelare questo momento o, semplicemente a levare via questo “lei”, che rimane doveroso ogni volta che la vedo.

Ma anche qui, seduti a questo fantomatico tavolo, la storia sarebbe sempre la stessa: “ Daniela, il vino lo scegli te….”

N.B.: immagini scaricate dal profilo Facebook @Daniela Scrobogna